Marketing

Influencer Marketing, 3 miti da sfatare

La sfida odierna dei professionisti della comunicazione è ardua e sempre più complessa: riuscire ad attrarre l’attenzione di un pubblico più consapevole e “vaccinato” ai messaggi pubblicitari.

Una sfida che necessita di approcci diversi, innovativi per forma e proposta. Native advertising, il brand journalism di cui Virtual14 si fa “portatore sano”, l’influencer marketing, strumenti ormai indispensabili per riuscire a raggiungere in modo efficace i propri target.

Secondo uno studio condotto da Forbes, solo l’1% dei Millennials intervistati ha detto che basti un annuncio pubblicitario convincente a spingerli a fidarsi di un brand. Ben il 33% ha dichiarato che i blog sono la fonte d’informazione primaria (e credibile) utilizzata prima di un acquisto.

Una conferma del valore sempre crescente degli influencer e di come la comunicazione attraverso loro sia in grado di generare trust e autorevolezza a favore del marchio. Non a caso la parola “influencer marketing” secondo Google ha registrato una crescita superiore al 5000% di ricerche l’anno scorso.

Il fatto che abbia rilevanti possibilità e che permetta ottime performance non significa che possa essere preso alla leggera. Il pubblico non è nato ieri, e si può individuare un product placement molto facilmente.

Utilizzi particolari che hanno generato più di un mito attorno agli influencer ed al loro utilizzo in chiave business.

Mito # 1: Influencer, advocate, e ambassador sono la stessa cosa.

Ecco una serie di termini troppo spesso usati ed abusati con troppa leggerezza. andiamo quindi per ordine.

Gli influencer sono utenti diventati punto di riferimento per un network, utenti che con capacità come competenza e affidabilità sono divenuti autorevoli e quindi credibili.

Gli advocate sono “super fan” davvero appassionati ad un brand e desiderosi d’instaurare con questo relazione, perché sinceramente attaccati all’azienda.

Un vero advocate è nella maggior parte dei casi un cliente molto soddisfatto, risorsa davvero preziosa. Un esempio? Ricevo un ottimo servizio clienti da un’azienda e per questo decido di consigliare il marchio ai miei amici, convinto della sua bontà e di fare un “favore” ai miei cari.

Gli ambassador sono influencer “assunti” da un marchio per una campagna a lungo termine. Diventano veri e propri portavoce e per la loro attività sono ovviamente retribuiti. Il loro essere parte del brand li rende molto informati e voce primaria dello stesso.

Mito # 2: È solo una questione di follower

So che rovinerò i piani a molti professionisti: il numero di seguaci di un influencer su Instagram, Twitter, Facebook, LinkedIn non è MAI il modo migliore per valutare la sua influenza e la sua bontà come risorsa per un brand.

Dice a proposito Baer, “si tende a confondere il pubblico con l’influenza.” I numeri non sono tutti, perché non possono raccontare elementi qualitativi come la competenza o la capacità di relazionarsi.

Non posso far parlare di moda ad un’esperta di cucina solo perché ha un largo seguito. Pertinenza e risonanza sono più importanti dei follower, elementi fondamentali che si aggiungono all’autenticità.

David Alston sottolinea l’importanza di quest’ultima. Egli sottolinea la necessità di costruire relazioni autentiche con persone del settore per dare contenuti utili, risposte alle loro necessità. Così si creano relazioni, così si fidelizza.

Quindi, da dove si inizia a cercare il influencer giusto? Concentrarsi meno sulla dimensione del’audience e più sull’attività dell’influencer.

Mito # 3: Pagine viste e impressioni contano.

L’influenza può essere difficile da quantificare e misurare, soprattutto se pensiamo alla precisione della maggior parte delle attività del mondo digital. Difficile non significa impossibile. Parliamo di marketing ed è quindi fondamentale dare risposte certe sull’andamento delle attività. Ma misurare la qualità è difficile, difficilissimo.

Non è certo tutto riconducibile a visite del sito o alla reach, parametri importanti certo, ma non assoluti. Molto più rilevanti riuscire a generare passaparola, spingendo i nostri stessi fan a diventare nostri advocate. Un modo per generare autorevolezza e cementare il rapporto con loro.

Matteo Pogliani

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